Seppur sempre attorniato da questo «mito» della fotografia, tra parenti e vicini di casa, inizialmente, come giusto che fosse, è sempre stato un mondo che poco consideravo se non con la curiosità di vedere i preziosi gingilli che le producevano (con la latente tentazione di smontarli per vedere come erano fatti...).
Poi arrivò la montagna, a 18 anni iniziai a fare escursioni con una certa costanza ed ebbi la necessità di documentare le «imprese» per piacere personale. Il primo approccio fu con una compatta di cui ricordo poco, se non che probabilmente era una sottomarca di un modello in regalo nei fustini di detersivo. Nelle prime tre gite riuscii a scattare 92 foto con un rullino da 36 prima di sospettare che forse non si era agganciato correttamente.
Poi le cose iniziarono ad andare meglio, ma rimasero ancora per un paio di anni delle semplici documentazioni delle escursioni. Arrivò il 1997 e con lui la grande cometa Hale Bopp. La mia evoluzione fotografica era nel frattempo passata dall'indefinito rottame ad una ben più dignitosa «Voigtländer Vito B» che, seppur meccanicamente un po' vissuta, dava delle maggiori soddisfazioni. Quell'occasione mi diede la possibilità di vedere la fotografia come un «traguardo», volevo tentare di fotografare la cometa e mi informai su come farlo.
Ovviamente, con il senno di poi, le informazioni ricevute si rivelarono totalmente errate, ma qualche scatto riuscii e fu una soddisfazione enorme.
Da quel momento il fotografare non era più visto come una mera documentazione dei luoghi, ma un modo per raccontare un qualcosa e trasferire le emozioni all'osservatore.
Passarono gli anni, la Voigtländer venne sostituita con una Reflex Nikon, poi arrivò il magico mondo del digitale, prima un «comodo» affiancamento per le foto veloci (e qualitativamente poco significative) per poi, passando a fotocamere sempre più evolute, divenne ad oggi lo standard incontrastato.
I temi che fotografavo erano quasi costantemente gli stessi... daltronde quando potevo non facevo altro che andare in montagna. Scoprii la fotografia notturna all'epoca ancora ai primordi, ottenendo un buon riscontro. Poi anni dopo arrivò il grande amore... il Nord e le Aurore, e qua arriviamo ad oggi!
Anticipo subito la domanda «calda» come mi comporto con la postproduzione?
Riallacciandomi al discorso precedente, il mio fotografare è dato semplicemente dal piacere che provo nel raccontare una situazione, un luogo o qualunque cosa mi abbia lasciato qualcosa. Detto questo, come per un qualunque racconto, va scritto per essere tramandato. La mia scrittura avviene nella prima fase (la più importante) con la fotocamera e deve raccontare già al momento più cose possibili. La devo guardare e sentire ciò che sentivo al momento dello scatto.
Ma questa immagine fa sentire cose che io stesso ho provato... è una cosa facile. Il difficile è far si che la foto trasmetta sensazioni il più simili possibile a persone che magari la stanno guardando sullo schermo di un computer, se va bene, o nella meno nobile delle ipotesi, da uno smartphone mentre sono in bagno...
La postproduzione arriva li, deve enfatizzare i tratti caratteristici della foto e porre gli accenti sul messaggio. E su questo non pongo paletti.
Quello che ritengo fondamentale è però non snaturare il messaggio stesso. Una foto la considero riuscita se emoziona per il suo contenuto e non per l'elaborazione che ha ricevuto. Se una foto è stata «resa bella» in postproduzione o addirittura, come purtroppo si vede troppo spesso, creata completamente con un collage di diverse foto differenti, allora viene meno lo scopo principale per cui fotografo.
Lasciando da parte il patetico «nofilter» che promuove il falso ideale di uno strumento che catturi «la realtà assoluta» le foto che vi mostrerò come frutto di scatto+postproduzione avranno il solo scopo di narrare il più verosimilmente possibile ciò che ho avuto il piacere di vedere.
Questo, condivisibile o meno è il mio pensiero.